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GEVREY-CHAMBERTIN. Applausi a bicchiere vuoto.


La scena è quella di un’enoteca. Pochi tavoli sulla sinistra, un paio di poltrone decò davanti ad un tavolo da fumo su cui campeggia un’enorme scacchiera.
Sulla destra la scaffalatura con le bottiglie per la vendita. Tante bottiglie. Alla vista, infinite.
Un uomo dall’età imprecisata è intento a consultare cataloghi di vini, seduto scompostamente su una delle poltrone. Ogni tanto allunga la mano ad afferrare un bicchiere posato sulla scacchiera in mezzo ai pedoni insieme ad una bottiglia. Lo sorseggia. E’ un vino rosso.
Entra una donna ben vestita, stretta in un impermeabile dal taglio strano, bianco, con lievi striature arancio. Un paio di tacchi da chiedersi come riesca a camminare con tale agio e una borsa bizzarra che la fa sembrare lo schizzo di uno stilista eccentrico, senza averne tuttavia le forme spigolose.

LEI “Buonasera, vorrei una bottiglia di Borgogna.”
LUI “Buonasera…….” 
La guarda per una durata di tempo immorale. In silenzio.
Dall’esterno si odono rumori di tuoni, la loro intensità diventa veemente. Di lì a breve forse pioverà.
LEI “Salve, come le dicevo, vorrei una bottiglia di Borgogna.”
LUI “Temo di non poterla aiutare.”
LEI “Non ne ha?”
LUI “Ne ho. E tuttavia credo che lei non se la possa permettere.”
LEI “Che cosa ha detto, scusi? Chi le dà il diritto di pronunciarsi con tanta maleducazione!”
LUI “Oh, non deve fraintendermi. Non alludevo certo ad una sua impossibilità pecuniaria. 
Lei, a ben guardarla, ha denaro sufficiente da comprarne quante ne vuole, e tuttavia non può permettersela.”
LEI “Non so se mi sconcerta di più la sua insolenza o la sua sfrontatezza. Arrivederci!”
LUI “Aspetti. Non se ne vada.”
LEI “Me ne vado eccome.”
LUI “Le ho detto di non andarsene.”
LEI “Di ciò che dice lei, francamente me ne infischio.”
LUI “Io ho una storia per lei e lei non se ne andrà!” 
LEI “Io vado dove mi pare BRUTTO STRONZO!”
Un tuono roboante.
LEI “……. mi scusi,  ho esagerato.”
LUI “Oh beh, ha ragione su tutto: sul fatto che lei possa andare dove le pare, sul fatto che io sia un gran bell’esemplare di stronzo, sul brutto poi… un assioma di assoluta verità. 
In ogni caso tutti abbiamo sempre bisogno di una storia, anche quando sembra di no.”
LEI “La smetta.”
LUI “La verità è che là fuori ha iniziato a diluviare e ad occhio e croce quelle scarpe costano parecchio di più del suo orgoglio. Mica le vorrà rovinare. Manolo?”
LEI “Non dica assurdità.  Louboutin!”
LUI “uuuuuuuuhhhhhhhh…”
LEI “Che cosa le prende adesso?”
LUI “La vita è un ingorgo bizzarro di coincidenze assonanti.”
LEI “Senta, adesso chiamo un taxi e tolgo il disturbo. Ho un appuntamento.”
LUI “Chiami chi la sta aspettando e dica che ritarderà.”
LEI “Non chiamerò proprio nessuno, se non il radiotaxi, e non ritarderò.”
LUI “…del resto lei è tanto considerevole da potersi far aspettare molto più a lungo di quanto non immagini.”
LEI “Stia zitto e ricordi che ho ancora uno “stronzo” in canna.”
LUI “Touché.  Si sieda, la prego. Prenda un bicchiere. Beva con me. E’ un vino di Borgogna che fa rima con le sue scarpe. Se ascolta la mia storia può averne una bottiglia.”
LEI “Stia zitto, non dica altre fesserie. Me ne vado da qui prima possibile.”
La donna prende dalla borsa il suo telefono e fa una chiamata. Sospira sconsolatamente, si siede e afferra il bicchiere che l’uomo le ha offerto.
LEI “Il mio taxi non arriverà prima di 42 minuti. Le concedo questi. Posso togliermi le scarpe?”
LUI “Sono scomode?”
LEI “Non ha idea di quanto.”
LUI “Perché le indossa allora?”
LEI “Che stupida domanda da uomo stupido!!! 
Scusi…….  
…..tanto valeva le rifilassi lo stronzo!”
LUI “Lo conservi, non si sa mai.”
LEI “…. perché sono LORO le più mirabili di tutte.”
LUI “Posso vederle da vicino?”
LEI “Cos’è, una specie di feticista?”
LUI “No, niente del genere. Solo curioso.”
LEI “Non può vederle, no. Mi racconti questa storia e facciamola finita.”
LUI “Lei è di una bellezza abbacinante.”
LEI “STRONZO!”
LUI “E con questa abbiamo finito le munizioni.”

Entra in scena una figura femminile apparentemente più giovane.
Veste in modo sfacciatamente essenziale un paio di jeans strappati, un maglione bianco con le toppe sui gomiti e insolite scarpe color carota.
Si appoggia allo scaffale dei vini e comincia a parlare.

Non aveva ancora finito gli esami che il professore con cui si sarebbe laureata, le propose uno stage di sei mesi in Borgogna, in un’azienda della Cote D’Or.
Accettò senza alcuna perplessità.
“Ma tu lo parli il francese?” le chiese l’assistente con l’intento di metterla in difficoltà difronte al suo superiore. La detestava. Dalla prima volta che aveva avuto a che fare con lei quando, in sede di esame, si era presentata ignorando del tutto l’aspetto tecnico della materia, l’unico veramente importante in quel settore, e nonostante ciò, era riuscita a strappare un ventotto, intortando quel vecchio tronfio con una manfrina legata alla storia, al medioevo, ai frati, alla letteratura. OCA..
“Neanche una parola!” rispose serafica, sorriso sfacciato, sguardo tagliente, ricambiando in toto l’odio per quel pezzo d’imbecille che sicuramente godeva più del fatto di poter dire in giro “sono l’assistente di”, di quanto non godesse a scoparsi la fidanzata. IDIOTA.
E così, una mattina presto d’inverno, ampiamente fuori corso, prese un treno, e poi un altro, e poi un altro ancora e infine un autobus che quasi a buio la scaricò proprio difronte alla statua di un uomo seduto e incappucciato di cui non si vedeva il volto. Pensò che non fosse un gran bel segno e tuttavia, alla sua maniera, era arrivata a Gevrey-Chambertin.
Il collaboratore dell’azienda per cui avrebbe lavorato la attendeva poco distante fumando Gitanes e riconoscendola nell’aria impacciata da italiana, mosso da un’ insolita, e inaspettata a quell’ora, cordialità francese, le andò incontro.
“Bonsoir Mademoiselle, Je suis Roland, Je suis ici pour vous, Je suis envoyé par M. Gilles Burguet.” 
“Oui” rispose. E non rispose altro che “oui” al soliloquio che Roland fece per tutto il tragitto, breve a dire il vero, che da quell’incappucciato distava al Domaine che l’avrebbe ospitata per i prossimi mesi. 
Oui oui oui oui. A ripetizione. Roland avrebbe sicuramente pensato che fosse un po’ tocca, ma tanto i francesi lo pensano lo stesso di tutti quelli che non son francesi. Pazienza. Domani avrebbe imparato una nuova parola e il giorno dopo altre due, e poi altre e altre, finché, come accadde, avrebbe parlato il francese in modo più soddisfacente di una diva su la Croisette. 
“Oui , je suis Catherine Deneuve” le sarebbe venuto meglio dell’originale, perdio!
Ad ogni modo, passò un sacco di tempo in mezzo a quelle vigne basse e imparò a riconoscere a colpo d’occhio filare per filare, e così, tanto per fare,  aveva dato un nome a ciascuno di quei muretti che circondavano le viti, curate con un’attenzione così maniacale che pareva di essere in una fabbrica giapponese, avendo un suo metodo personale di riconoscimento che chiamava in causa tutti i personaggi di fantasia o i concetti reali o fittizi, ma sempre a gruppi di sette. Samurai, Re di Roma, Meraviglie, Vizi Capitali, Sorelle. I muretti più sfigati facevano parte, ovviamente, del gruppo Nani.
Andò per mesi su e giù pedalando per il dipartimento con quella mountain bike nera e brutta e pesante che tuttavia Roland le aveva concesso in prestito con grande reticenza  e solo in cambio di una finocchiona, che si era fatta appositamente mandare da un amico toscano salumiere. 
Roland impazziva per la “finocchionà”. C’era poco da fare. 
Pedalava, fotografava, parlava in francese (ma solo quando ne aveva voglia), beveva, conosceva.
Non è dato sapere come,  ma imparò molto anche delle pratiche di cantina, più che altro osservando gli altri, perché pareva non capisse un accidente di quanto dicevano tra loro e, se interpellata, rispondeva spesso e volentieri “oui, oui, oui…” al che, tutti pensavano che dall’università italiana avessero mandato una stagista più tonta del solito.
E poi arrivò il giorno di tornare da dove era venuta. Andò da Roland a restituire quella ferraglia che lui si ostinava a chiamare mountain bike, ma lo fece solo in cambio di una bottiglia di pinot noir. Di quelle buone.

LEI intanto si è rimessa le scarpe e si alza dalla poltrona con il bicchiere in mano. Lo guarda, lo annusa, lo beve.
LEI: “ Il colore è troppo intenso per essere quello di un pinot. Del resto con i terreni su cui vivono le vigne che lo generano, tanto di meglio non si può ottenere. Per quanto le note olfattive siano tipiche di uno Chambertin, con richiami al ribes nigrum e al lampone, questo è ancora troppo giovane e porta con sé un carico da novanta di sentori terrosi; secondo me le uve sono state raccolte dalle vigne accostate al muretto “Accidia”. Quelle non hanno mai avuto granché voglia di darsi da fare.
La trama tannica tuttavia è impenetrabile e nobile. Sarebbe migliorato con il tempo, altroché, ma lei non ha avuto la pazienza di aspettarlo, e la spinta di questa polpa che adesso le esplode in bocca come un petardo, si sarebbe evoluta in un gioco pirotecnico che l’avrebbe lasciata senza fiato.
Ah… dica a Roland che è sempre stato un gran coglione e che il vino che mi ha rifilato per riavere quel cesso di bici era davvero una merda.”
LUI “Se lei sapeva, perché... ”
LEI “Perché anche quando sembra di no, tutti hanno bisogno di una storia, soprattutto se è la propria.
Il mio taxi è arrivato. La saluto.”
Posa il bicchiere ed esce. 
Dopo pochi secondi rientra concitata. Si dirige verso lo scaffale ed afferra una bottiglia con piglio sicuro.
LEI “Dimenticavo il mio vino.”

VG

*ogni riferimento a Tabucchi, Baricco e Grossman è fortissimamente, quanto indegnissimamente, voluto.



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